Quando si parla di aborto, della cui legge di regolamentazione ricorre quest’anno il quarantennale, pochi ricordano quale fosse la condizione in cui le donne si trovavano a praticarlo, se ne avevano necessità. Se non andavano da “mammane” improvvisate, in condizioni sanitarie non proprio perfette, andavano da medici che operavano in clandestinità, che per questo si facevano pagare a peso d’oro, o in cliniche all’estero in viaggi organizzati dai primi centri di aiuto femministi. Erano condizioni di grave disagio, con pericolo per la propria vita e per la propria salute, segnate inoltre da una disapprovazione sociale di disprezzo e condanna, anche penale, visto che era un reato che considerava l’aborto non come un delitto contro la persona, ma contro lo Stato. Complicanze, scarse condizioni igieniche, i cosiddetti “cucchiai d’oro”. La prima battaglia fu quindi quella della legalità, di uscire dalla clandestinità di una pratica che esponeva le donne a seri pericoli e ingrassava quel personale medico che sulla illegalità prosperava. Con la legge 194 del 1978 l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) viene riconosciuta come una pratica legale, consentita entro 90 giorni dall’ultima mestruazione, mentre tra il quarto e il quinto mese è permessa solo in caso di gravi malformazioni e pericolo di vita per la donna. Fu quindi una conquista per i diritti civili ma era una battaglia culturale e di costume, che sfidava la violenta disapprovazione sociale e faceva uscire dalla clandestinità una pratica specificamente femminile; affermava inoltre principi cruciali, come il diritto della donna alla autodeterminazione della maternità, alla libera scelta dell’uso del proprio corpo, una rivoluzione di enorme portata. “L’utero è mio e lo gestisco io”, con tutto il peso di una affermazione che sfiorava la blasfemia, sfidava secoli in cui la maternità era profusa da una aureola di santità e di mistero, il cui vessillo era una madre senza peccato e usciva da una oppressione secolare che scaricava sulla donna tutto il peso della gestazione oltre che della cura e dell’accudimento. C’erano donne che rimanevano incinte decine di volte nella propria vita riproduttiva e si trovavano ad affrontare, volenti o nolenti, gravidanze e aborti multipli. Il piacere sessuale era considerato una colpa e la principale funzione del matrimonio era la riproduzione, gli anticoncezionali proibiti dalla Chiesa che con molta fatica era giunta ad approvare l’inaffidabile metodo Ogino Knaus. La donna quindi doveva riprodurre o abortire in clandestinità, era responsabile delle proprie gravidanze come della cura dei figli, che lavorasse o che fosse o meno parte rilevante del reddito familiare. Analogamente le condizioni di lavoro erano all’insegna della subalternità di una condizione e solo negli anni ’60 sono arrivate a regime alcune importanti norme sulla tutela della lavoratrice madre, il divieto di licenziamento durante la gestazione, l’astensione obbligatoria prima e dopo il parto. Sempre in quegli anni sono stati fatti passi da gigante nella strada della parità, con il nuovo diritto di famiglia, con l’ammissione delle donne a cariche, professioni e impieghi pubblici, l’introduzione di asili nido e consultori, l’abolizione del delitto d’onore, la legge sul divorzio, l’equiparazione dei figli legittimi e naturali. Ma il culmine di queste conquiste sociali delle donne fu la tormentata e ostacolata Legge 194, che ha subito innumerevoli ricorsi per incostituzionalità e resta una delle più contestate, con ancora oggi il 69 % dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza.