Le smanie per la campagna elettorale e la politica virtuale

Lo confesso, sono un radioascoltatore. Accompagno il lavoro con l’ascolto di musica. Preferisco il Jazz e quasi sempre, quando leggo e scrivo lo ascolto. Anche in questo momento. Quando invece non leggo o scrivo aspetto le notizie e i programmi di approfondimento giornalistico. Sempre alla radio che mi pare esempio paradigmatico del mondo perché, grazie all’elevato grado di interattività che il mezzo ha raggiunto, tutti possono intervenire nei programmi in diretta con telefonate, sms, whatsapp e naturalmente attraverso i “social”. È un utile esercizio antropologico. È un campo di ricerca sul quale, per quanto virtuale, si può esercitare una sorta di “ascolto partecipante”. In questi primi giorni di campagna elettorale ho ascoltato, su Radio 1, la trasmissione di Giorgio Zanchini e nella puntata con Matteo Salvini, ho mandato un messaggio watsapp. Inevitabilmente il discorso è finito su Attilio Fontana, candidato del centrodestra alla Regione Lombardia e alla sua difesa della “razza bianca” dall’arrivo degli immigrati – sottintendendo questi ultimi come appartenenti a razze diverse se non inferiori. Dunque si parlava di razze umane, al plurale! Senza scomodare la famosa risposta di Einstein (“Razza? Umana”) ho inviato un messaggio sulla assurdità di tale affermazione, visti tutti gli studi in materia che hanno dimostrato che le razze umane non esistono, che gli umani non hanno avuto un tempo abbastanza lungo, geologicamente parlando, per far emergere differenze genetiche e razziali e che tutte le culture umane sono da secoli mescolate e “connesse”. Zanchini ha riassunto il messaggio dicendo che un antropologo dell’Università di Salerno aveva decostruito il concetto di razza; nel frattempo politici, giornalisti, esperti hanno continuato sulla loro strada mentre Salvini rispondeva alla questione della razza con l’abolizione della Legge Fornero e con l’idea di riaprire le case chiuse, senza dimenticare la sua contrarietà ai vaccini e agli spinelli. Anche Renzi, in un’altra trasmissione del 12 gennaio, a chi gli chiedeva cosa fare per abolire veramente le provincie mangiasoldi, a chi lo interpellava sui risultati del referendum costituzionale, rispondeva con la sopraggiunta unità del suo partito, i risultati ottenuti, gli 80 euro in busta paga e nessuna responsabilità, sua e del suo partito, per la mancata riduzione del debito pubblico. Sono arrivato così al punto. La campagna elettorale sembra pervasa da meccanismi comunicativi nei quali sono coinvolte tre categorie: politici, elettori e giornalisti. Questi gruppi rappresentano antropologicamente tre istanze che non riescono a trovare un linguaggio comune. Succede alla radio dove gli elettori chiedono ai politici risposte alla propria condizione e alla loro collocazione nel tessuto sociale; e i politici guardano e pensano la realtà attraverso il filtro della loro esperienza di separatezza dal quotidiano; la stampa propone interpretazioni dei fatti ricordando ai cittadini e ai politici la distanza che separa i loro discorsi. Sembrerebbe del tutto regolare se non fosse che tutto ciò non avviene più nei luoghi e nei tempi “classici” del prodursi della politica. La relazione politica tra le parti ha sempre avuto bisogno di spazi fisici per rendere concrete le idee dibattute. In fondo la nostra politica dovrebbe essere Res publica e alludere a qualcosa di materiale. Le riunioni, le assemblee, i consigli, i parlamenti e i soviet erano un lavoro fisico e intellettuale che impegnava tutti in una relazione materiale in un luogo concreto. L’informazione era solo un modo di mostrare quel luogo fisico e concreto dell’azione politica la quale era a sua volte fisica e concreta. Come la scarpa di Kruscev, ostentata e battuta e lasciata in bella mostra, per protesta, il 12 ottobre 1960 sui banchi dell’ONU, una delle icone del secolo scorso. Come la tirata d’orecchie a Fanfani del militante democristiano Angelo Gallo il 9 maggio 1979, in una chiesa, in segno di protesta. È tale fisicità che oggi manca nei comportamenti politici e qui il discorso ci porterebbe molto lontano, verso l’importanza del corporeo nella costruzione della consapevolezza del nostro essere e della nostra identità. Una mancanza che comincia a essere preoccupante visto che sfruttamenti, abusi, soprusi, vessazioni e angherie nei confronti dei lavoratori, delle donne, dei bambini, dei diversi, dei deboli, sono diventati comportamenti “banalmente” quotidiani. Sta in questo il problema della separazione sempre più profonda tra politica e strato sociale. Come e cosa possono integrare quelle politiche che hanno l’effetto di separarsi (e separare) dalla Res publica riproducendosi quasi esclusivamente in maniera virtuale? Il politologo Marco Revelli ha scritto che la politica contemporanea perdendo i suoi spazi fisici ha in realtà perso se stessa, il suo senso. Priva di uno spazio istituzionale concreto, ha finito per perdere concretezza. Si è allontanata dai contesti in cui la vita avviene e così non la capisce più – non capisce più una vita fatta di bisogni e affetti concreti e, di fatto, non se ne occupa più. La cultura, intendendola in senso antropologico, è diventata un misterium per i politici virtuali, per i commentatori mediatici e per gli spettatori social-internauti. Non si riesce più a capire che nulla di ciò che riguarda l’umano è frutto di costruzioni consapevoli e di scelte concrete e alternative. La diffusa mancanza di consapevolezza culturale è il problema politico maggiore dei nostri tempi. “Crisi della presenza” l’aveva definita Ernesto De Martino e a nulla valgono le voci di chi prova a denunciare tale crescente “assenza”. “Il vaccino fa male come lo spinello, le razze esistono e quella bianca è la migliore di tutte”, sono affermazioni che si amplificano mediaticamente ed escono dall’arena politica per transitare senza filtro nel quotidiano perché l’arena politica non esiste più e la politica ha incorporato le regole di condotta, i principi informativi e i linguaggi dei media. In questo modo si da risalto alle vicende mediaticamente/politicamente narrate non a ciò che le spiega, ai fatti non alle cause. Se la politica narra i fatti difficilmente si occuperà delle cause che li provocano e ancora più difficilmente troverà dei rimedi per combatterle. Si nutrirà del locale, del piccolo, del pettegolezzo, di interessi di parte ben definiti che attraverso la spettacolarizzazione aspirano a una dimensione tanto globale quanto astratta. La politica ha così scoperto che più che “intercettare i pensieri provenienti dalla pancia” degli elettori è meglio appropriarsi direttamente dei meccanismi che aiutano a produrli. Siamo di fronte a qualcosa di simile per la politica italiana e mondiale: le regole del congegno politico sono prevalentemente costruite e utilizzate nel modo e nel mondo immateriale della comunicazione virtualizzata. Le continue campagne elettorali politiche, amministrative, referendarie, locali ed europee, diventano il nutrimento di questa narrazione, il luogo in cui l’osmosi tra il virtuale e il reale avviene. E la conseguenza, tra le più pericolose, è che ormai da molti anni gli elettori consapevoli si assottigliano sempre di più.

Vincenzo Esposito è docente di Antropologia Culturale al Dipartimento di Scienze del Patrimonio culturale all’Università di Salerno
Nelle foto: Toni Servillo in “Smanie per la villeggiatura” di Caro Goldoni; Kruscev e la scarpa all’Assemblea dell’ONU; la tirata di orecchie a Fanfani; Berlinguer e Benigni in una manifestazione del PCI a Roma negli anni ’80; la traversata di Grillo nello stretto di Messina.

Vincenzo Esposito

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