Pubblichiamo l’intervista a Davide Iodice fatta qualche mese fa da Giovanna Naddeo su uno degli ultimi spettacoli del regista, “La luna”
Le testimonianze dirette di tante persone, documentate in video o in voce, ma anche i più disparati oggetti raccolti nel corso di una riflessione non comune e concretizzatasi, infine, in un’originale drammaturgia. È un magma in continua evoluzione “La Luna”, l’ultimo spettacolo dell’attore e regista partenopeo Davide Iodice, debuttato il settembre scorso a Palazzo Fondi di Napoli. In scena, un intenso viaggio nel dolore di una comunità intera, nel rifiuto, nella sofferenza. Oltre 250 i materiali consegnati «dalle mani vive delle persone» al regista, tra cui abusi mai confessati, messaggi prima di un addio, abiti per il funerale di un padre o psicofarmaci. Tanti. Un viaggio nella consapevolezza del dolore e nel rifiuto di esso, un po’ come l’Astolfo di Ludovico Ariosto, alla ricerca del senno sulla Luna.
Iodice, come nasce l’allestimento de “La Luna”?
«Sono partito da un’intuizione all’incirca di due anni fa, dal tentativo di “oggettivare” ciò che viene scartato, rifiutato. Il processo di allestimento è andato così: la chiamata pubblica a Palazzo Fondi e la consegna volontaria di storie da parte delle persone che hanno deciso di contribuire, donandoci le loro emozioni, i loro rifiuti. Successivamente è iniziata la fase in cui, prima con un laboratorio all’Accademia delle Belle Arti e poi con la Scuola Elementare del Teatro, abbiamo studiato il materiale raccolto su videocamera e “lavorato” gli oggetti. Siamo partiti dalle testimonianze di chi ce li ha donati (e che abbiamo registrato su video durante la consegna). In seguito abbiamo lavorato di improvvisazione, collegando le storie, fino a quando siamo giunti al punto in cui i contenuti si sono amalgamati da sé».
Un autentico processo maieutico, verso una catarsi ancestrale, forse feroce ma autentica. Come drammaturgo e regista, per lei cos’è necessario far arrivare allo spettatore?
«Come nel teatro greco, ancora oggi nella società contemporanea, l’attore riveste l’importante ruolo di “farmakon”, ossia antidoto. Il teatro può essere la cura a una realtà in sé drammatica. Quando la videocamera ha ripreso i momenti della consegna ho notato sobbalzi emotivi nelle persone che, nutrendo grande fiducia nell’arte, ce li affidavano. Ecco, quella per me è catarsi. Realizzare questo spettacolo è stato un percorso commovente, soprattutto per me che li raccoglievo dalle mani vive delle persone».
Ci sono nuove date in programma?
«Sì. Riprenderemo lo spettacolo in primavera (nella speranza che l’emergenza Coronavirus rientri) in diverse città italiane, arricchendo scenografia e sceneggiatura di nuovi oggetti. “La Luna” è un magma di storie e idee, in continua evoluzione».
Come vede la scena teatrale italiana contemporanea?
«Molto viva. I teatri pullulano di iniziativa. La città di Napoli, poi, è in pieno fermento artistico. Il problema italiano resta uno: la fragilità economica dei lavoratori dello spettacolo. Troppo poche le tutele, inadeguate le garanzie. In questi giorni di emergenza sanitaria, anche il nostro comparto sta soffrendo pesantemente. Abbiamo chiesto al Governo lo stato di calamità per l’intero settore. Siamo in difficoltà».
Giovanna Naddeo