Forse sarà difficile spiegare agli abitanti di via Seripando di Salerno che si trovano ogni giorno i ladri in casa, che tutto dipende dall’”algoritmo prodiano” degli anni ’90, necessario all’Italia per entrare nell’Europa. Così come sarà arduo sostenere con i ragazzi che ogni anno partono da Salerno e dalle altre città della Campania per trovare uno straccio di lavoro, che la colpa è del Fiscal Compact. La verità è che in questi anni non ce l’hanno raccontata giusta, anzi ce l’hanno raccontata proprio sbagliata. Ci hanno convinto i vari big leader e gli opinion makers, che entrare in Europa era cosa buona e giusta; che il paese doveva essere all’altezza e che “dovevamo fare i compiti”, come con metafora scolastica si era espresso quel campione di politiche europee di Mario Monti; il quale come diceva Marco Antonio (alias Napolitano) ai funerali di Cesare, era uomo d’onore. In realtà il funerale lo stavano facendo all’Italia già da un po’ ma il culmine si è raggiunto con le politiche montiane che hanno portato alla riforma Fornero fino al jobs act renziano. Riforme, austerità, manovre lacrime e sangue, necessarie allo stare in Europa, senza le quali avremmo trovato rovina e povertà e, dio ce ne scampi, l’avvento degli unni, cioè dei partiti populisti. Bene, ora che i partiti “populisti” hanno vinto, una miriade di voci emerge dal sottosuolo e fioccano le prime serie critiche alle politiche economiche che hanno portato l’Italia nell’attuale situazione. Quando il Fiscal Compact venne firmato da 25 paesi nel 2012, forse ancora non si era capito che quei provvedimenti avrebbero modificato drammaticamente la vita degli italiani; l’obbligo del pareggio di bilancio prevedeva una contrazione delle spese dello Stato ai fini del contenimento del debito pubblico. Ma quello che non ci avevano spiegato che il contenimento del debito, le famose politiche di austerità, venivano spalmate sulla pelle delle persone, con l’aumento delle tasse, lo smantellamento dello stato sociale, lasciando al contempo inalterata la mole di benefici che la classe politica – e il suo vasto indotto- si era conquistata negli anni. Ma il fiscal compact non era nato dal niente; prima c’era stato il Trattato di Maastricht del 97 che prevedeva un rapporto fra deficit e PIL non superiore al 3 per cento e un rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60 per cento. E prima ancora c’era stato il trionfale ingresso in Europa dell’epoca prodiana, per il quale era necessario un enorme risanamento, a cominciare dalle privatizzazioni di aziende di stato a beneficio degli amici. Guarda caso, tra i primi mantra di Beppe Grillo, c’era proprio la cancellazione del Fiscal Compact, il quale aveva intuito che più la classe politica stava ai patti con l’Europa, più le condizioni degli italiani sarebbero peggiorate. E mentre i partiti populisti interpretavano sempre più il malessere, il disagio, le paure, il bisogno di sicurezza degli italiani, la sinistra, stretta nella morsa della rigida osservanza dei principi europei, ha perso la propria ragion d’essere e cioè la rappresentanza delle classi via via impoverite da queste politiche. Così l’analisi del voto che ha portato alla sconfitta di questo sistema, e la debacle dei partiti di sinistra, passano necessariamente da una messa in discussione energica delle politiche europee e dai principi neoliberisti. Il crollo del Muro di Berlino nell ‘89 costrinse a chiudere con la storia comunista ma nessuno obbligava il maggiore partito comunista europeo, a scegliere in alternativa posizioni neo liberiste. Da Occhetto a D’Alema, a Prodi, a Renzi, il cammino è stato invece inarrestabile; la rincorsa a falsi miti blairiani e kennediani fece il resto con il Partito dell’”i care” veltroniano, fino alla Leopolda di Renzi con le sue slides, i suoi twitter, il suo cerchio magico. E se Bersani era corso a sostenere il governo Monti assieme a Berlusconi, Renzi ha messo la ciliegina sulla torta con il job’s act e con lo smantellamento scientifico del vecchio apparato nostalgico della base, fino al patto del Nazareno dove anche l’ultimo residuo di divisione ideologica tra destra e sinistra è saltato. E via riforme imposte a colpi di fiducia compresa quella elettorale, sordi al primo avviso quale la sconfitta del referendum costituzionale che già avrebbe dovuto costringere a fermarsi e a capire l’esigenza di cambiamento che arrivava dal basso. Oggi, scrivono vari studiosi su Il Manifesto o su Huffington post, il Pd non è più un partito ma un’“azienda del consenso” il cui scopo non è la trasformazione della società, ma il profitto e la moneta del profitto sono i voti. E mentre si attaccavano i partiti populisti come inaffidabili e pericolosi, la “sinistra europea” ha smesso di parlare con il popolo. Nel frattempo ai cittadini impoveriti, ai ragazzi del sud che emigrano, alle famiglie senza più servizi, con le garanzie del lavoro distrutte, le pensioni che tardano ad arrivare, non resta che l’ultima difesa, il voto, altrove, nella speranza che altri possano effettuare quel cambiamento che i vecchi partiti della sinistra ( e i suoi derivati) non sono più in grado di garantire.