Da molti anni Ulderico Pesce ha fatto della sua terra, la Basilicata, la sua poetica, la sua linea di narrazione e di impegno civile. Ad essa e ai suoi problemi ha dedicato spettacoli teatrali che hanno toccato punti critici fatti di soprusi, di strapotere, di violazione dell’ambiente, di vicende dimenticate intorno a cui raccogliere l’indignazione e l’emotività del pubblico. L’idea del teatro come servizio non è nuova; già dai primi testi di Brecht che risalgono agli anni ’20, come “Tamburi nella notte” o “L’Opera da tre soldi” la rappresentazione esponeva il dramma dei diseredati, i rapporti di forza tra le classi, l’intervento del popolo o dei suoi rappresentanti; così negli anni ’70 il teatro si occupava di quanto accadeva nel mondo, le guerre, le rivoluzioni, i grandi mutamenti sociali.
Anche la drammaturgia degli anni ’50 europea, da Ionesco a Beckett a Osborne, ha trattato temi dell’uomo contemporaneo in conflitto con il potere e con la storia. Pesce, che si è formato a Mosca alla scuola del grande regista Anatolij Vasil’ev, ha appreso che il teatro è una continua discesa agli inferi; si va giù a raccogliere le storie comuni che hanno toccato da vicino gli uomini e le donne e l’attore è il portavoce, il medium di tale dolore e spesso si intrattiene anche dopo lo spettacolo a parlare con il pubblico. Un po’ come accadeva nei rituali contadini stagionali, dove dopo la mietitura o la vendemmia, ci si fermava sull’aia a cantare storie. Da “Contadini del sud” del poeta di Tricarico, Rocco Scotellaro con Amalia Rosselli; all'”Innaffiatore del cervello di Passanante” dedicato all’anarchico che aveva attentato alla vita di re Umberto I, imprigionato e massacrato anche post mortem con il suo cervello conservato nel Museo Crimonologico di Roma; alle tante emergenze del meridione, come le scorie nucleari, la lotta degli operai di Melfi, o i traffici illeciti di rifiuti. Pesce ha una sua cifra stilistica come drammaturgia e come recitazione. Le narrazioni vengono prese dai dettagli minuti o da personaggi laterali e minori; così la vicenda di Passannante è raccontata dal carabiniere che al Museo ha il compito di tenere umido il cervello dell’anarchico conservato nell’alcool. Così la storia di Elisa Claps è raccontata dai suoi sandali con l’occhio di bue. Una vicenda che ha segnato la storia della Basilicata e in particolare Potenza, quella della ragazza assassinata nella Chiesa della Ss. Trinità da Danilo Restivo e su cui si è scatenata l’omertà di una intera comunità, a cominciare dai vertici della Chiesa alle autorità giudiziarie, che ha fatto muro intorno ad una famiglia di notabili locali che hanno tessuto una fitta rete di protezione all’assassino. Una storia di vergogna per la malattia, una storia di soprusi sulla povera gente per un delitto che ha colpito l’opinione pubblica italiana, a cui sono stati dedicati fiumi di articoli di giornale, servizi televisivi e una fiction, grazie soprattutto alla battaglia della famiglia. Silenzi e omertà che hanno avuto tragiche conseguenze, un altro delitto in Inghilterra dove Restivo era stato mandato senza preoccuparsi del suo stato mentale, con la scoperta infine, clamorosa e oscena, del cadavere della ragazza abbandonato nel tetto della chiesa dove era stato tenuto nascosto per diciassette anni.
Anche in questo caso, Pesce prende la storia da un dettaglio, i sandali a occhio di bue che le aveva regalato il padre e ritrovati accanto ai poveri resti; ed è il padre stesso che si dichiara morto da quel dì a raccontare l’indicibile orrore della ragazza di Potenza, scomparsa un giorno di settembre e ritrovata morta diciassette anni dopo. Diciassette anni di dolore della famiglia devastata da quel lutto, dell’affranta madre, del combattivo fratello, dei pochi cittadini che li hanno sostenuti in una guerra più grande di loro che non avevano chiesto e che ha schiacciato la loro vita. Pesce racconta la storia sotto traccia, senza enfasi e tocca le corde del cuore quando descrive l’amore dei genitori per Elisa; fa vibrare le leve dell’indignazione rispetto alla catena di omertà che si dispiega intorno all’assassino; fa ribollire il sangue quando recita la messa di Don Mimì – il parroco della SS Trinità – mentre si compie il massacro nella casa di Dio. Come nel “Padrino” di Francis Ford Coppola (di origini lucane anche lui) il delitto mafioso avveniva sulle note del melodramma, così Pesce utilizza la medesima tecnica epica che già usavano i greci; il misfatto è lontano dagli occhi ma il contrasto con la liturgia del rito suscita pietà ed orrore. Ed è esattamente quanto avviene sul palcoscenico per “I sandali di Elisa Claps” del bravissimo Ulderico Pesce, narratore dei nostri tempi malati, accolta dal pubblico salernitano con grandi applausi nel Teatrino di Portacatena.
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