Processo al potere. L’intervento di Massimiliano Amato

Cara Luciana,

ho fatto passare un po’ di tempo prima di intervenire sulle questioni che affronti nel bell’intervento su youcamp.net, sperando che si depositasse un po’ della polvere sollevata dalla trasmissione della De Gregorio e, ancor di più, dalle reazioni che essa ha scatenato nei palazzi del potere, nella cosiddetta “opinione pubblica” (?) cittadina e nell’informazione locale. Non sono molto sicuro che l’orizzonte sia completamente sgombro: noto anzi che qualche grumo ancora ne compromette la perfetta visione, tuttavia provo lo stesso a ragionare su quello che è accaduto nelle ultime due o tre settimane, mettendomi in scia alla tua lucida e molto condivisibile analisi. Perdonami se non abboccherò al luogo comune che imperversa da giorni, secondo il quale la De Gregorio avrebbe, cito testualmente, “scontentato tutti”: sia chi si oppone al sistema di potere cittadino, sia chi invece se ne sente parte o, semplicemente, si ostina a difenderlo, costi quel che costi. In realtà, tra i primi – in alcuni avvertito solo confusamente, in altri sentito con maggiore chiarezza – prevale un sentimento che chiamerò, per comodità, di frustrazione, ma forse per molti il termine non risulterà granché appropriato, e mi scuso se non sono riuscito a trovarne uno migliore. In cosa consista questa frustrazione è presto detto: nel vedere continuamente rimandata la celebrazione di un grande, implacabile, processo al potere, che sarebbe – e qui introduco un elemento di valutazione assolutamente personale – ciò di cui Salerno avrebbe più bisogno in questa fase della sua storia, per una serie di motivi che andrò ad esporre di qui a poco. Intendo “processo” nell’accezione pasoliniana del termine, così come essa risulta declinata in due articoli, pubblicati su “Il Mondo” e il “Corriere della Sera” a cavallo tra il mese di agosto e quello di settembre del 1975, poco prima quindi della tragica notte dell’Idroscalo. Come senz’altro saprai, in quei due articoli Pasolini usava l’espediente della domanda retorica – una serie di perché e di “gli italiani vogliono consapevolmente sapere” – per inchiodare alla sbarra, assolutamente metaforica, la classe dirigente democristiana dell’epoca. Non per chiederne la condanna, ma per consentire quell’esercizio abbastanza negletto, ma necessario, che si chiama “controllo democratico”.  In 25 anni, per usare una metafora automobilistica, a questo sistema non è stato ancora possibile nemmeno fare un tagliando, uno solo: chi ci guarda da fuori (e Concita tra questi) trova tutto ciò molto poco compatibile con le regole-base della democrazia. E, francamente, mi viene molto difficile dare loro torto. Ora, converrai che tra un reportage e un processo di tipo “pasoliniano” al potere – basato, eventualmente (suggerisco) su due domande fondamentali: chi si è arricchito e chi si è impoverito in questo quarto di secolo? E: quali sono stati i meccanismi di formazione del consenso che si sono creati nel frattempo? – passa una bella differenza. Quello della De Gregorio era un’inchiesta giornalistica, genere che, come sai molto meglio di me, ha le sue regole, i suoi rituali, i suoi limiti.  Uno spazio troppo angusto per ospitare un processo, insomma: di qui, dalla constatazione cioè che l’aspettativa era sproporzionata rispetto al “format”, una certa mia difficoltà a considerare completamente deludente la trasmissione di RaiTre, che tuttavia un paio di intuizioni fondamentali le conteneva.  La prima. La sottolineatura della pervasività del “sistema”, e del suo creatore unico anche ora che è passato ad altro ruolo istituzionale, in ogni singolo aspetto della vita cittadina. Una specie di “controllo militare” di cui si sapeva molto poco al di fuori della cinta daziaria. Adesso l’Italia sa. La seconda. Come sia stato possibile tutto ciò. E su questa domanda apriti cielo, perché un pezzo di “società civile” s’è rizelato di brutto facendo tracimare, prima sui social e poi sui giornali, la propria indignazione. In verità, se rispetto al reportage della De Gregorio la scontentezza degli “anti sistema” mi risulta, come ho cercato di spiegare, di difficile comprensione, quella dei “sostenitori” mi sconcerta molto. Per una fondamentale ragione di metodo, non di merito (su quello riconosco la legittimità di tutte le opinioni, anche le più lontane dalle mie): il diffuso sentimento di “lesa maestà” che s’intravede dietro la maggior parte delle reazioni. Quasi come se la De Gregorio fosse venuta ad usurpare uno spazio di analisi e di critica che andrebbe lasciato in appannaggio esclusivo alle rassicuranti gazzette salernitane. Le quali gazzette, forti di questa investitura popolare, si sono lanciate in attacchi a testa bassa alla trasmissione. Taluni  sono stati così sguaiati da non meritare, né in questa né in qualsiasi altra sede, alcuna considerazione. Qualcun altro, con maggiore pretesa di raffinatezza e condito di rimandi (molto confusi e confusionari, per la verità) a Machiavelli, rientra in pieno in quella complessa “ideologia dell’acquiescenza” (chiamiamola così per non offendere nessuno…) che sembra aver espugnato da qualche decennio l’informazione cittadina, e che meriterebbe più di un approfondimento in sede storica e sociologica. Una pratica diffusa di conformismo interessato basata sulla più o meno completa abdicazione di buona parte della stampa ai suoi principali doveri, primo fra tutto l’esercizio della ragion critica. Chi si è rifiutato di acconciarvisi è stato brutalmente espulso o fortemente ostracizzato: e mi fermo qui sul punto. Se vuoi, però, ci torniamo un’altra volta. Tralascio le livorose, biliose, reazioni del potere: ritengo che anche le (deliranti) espressioni “camorrismo giornalistico” e “squadrismo mediatico” possano costituire oggetto di querela, in opposizione a quelle annunciate, e vado a concludere. Mi sembra che a Salerno si vada spalancando un pericoloso iato tra l’immagine che i salernitani conservano della città e quella che comincia (finalmente) a circolare fuori dei confini municipali. Il paradigma dell’isola felice, il paradiso del buon governo e tutte le altre amenità che fino a qualche anno fa lasciavano di stucco molti di noi (me per primo, che ho spostato da anni il baricentro dei miei interessi professionali altrove, ma a Salerno continuo a viverci, e non ho nessuna intenzione di andarmene), risulta completamente capovolto. Fa testo la frase con cui Concita inizia la sua trasmissione: “Non puoi capire l’Italia di oggi (sottotesto: Paese in cui la democrazia è in crisi profonda) se non sei stato almeno una volta a Salerno”. Questo difetto percettivo impedisce ai salernitani anche di capire l’epocale stravolgimento prodottosi con il voto del 4 marzo scorso. La metto giù brutale: penso (e non sono il solo) che il “sistema Salerno”, con le sue derive familistiche, di potere irresponsabile e tutto quello che sappiamo e denunciamo da anni, sia stato tra le prime due o tre cause del tracollo del Pd a livello nazionale. Leggo (ma, ovviamente, non ho riscontri diretti) che lo stesso Renzi sarebbe arrabbiato di brutto con il suo alleato di ferro campano, e la cosa mi appare abbastanza verosimile.  Nel ’93, in un dibattito televisivo prime del ballottaggio  per le amministrative a Napoli, un’incazzatissima Alessandra Mussolini si rivolse così ad Antonio Bassolino, che aveva preso più voti di lei al primo turno: “Ah Bassolì, hai fatto cade’ la Borsa” (Piazza Affari aveva perso un paio di punti). Mi auguro che, prima o poi, qualcuno, rivolgendosi al governatore della Campania, gli rinfacci che la sua sovraesposizione, e la perfetta identificazione tra il sistema di potere di cui è a capo e il Pd, hanno contribuito a riportare, come ricordato da Peppe Provenzano, la sinistra italiana ai livelli elettorali del 1924 (legge Acerbo). L’ho fatta lunga e ti chiedo scusa.

Saluti.

Massimiliano Amato

 

Nelle foto: Pier Paolo Pasolini; immagini dal programma “Fuori Roma” di Concita De Gegorio, Rai3; immagine dall’inchiesta di Fanpage; opera dell’artista Vincenzo Vavuso.

Massimiliano Amato

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