40 anni dalla 194 / Il processo Sanfratello a Salerno

E’ un giorno di marzo del 1977 quando, per le strade di Salerno, esce un manifesto 70/100, fondo bianco, caratteri in rosso, con stampata una Lettera aperta all’Arcivescovo di Salerno. “Vogliamo portare a sua conoscenza, scrivono le autrici, e denunciare alla cittadinanza l’ignobile e vergognosa operazione che le parrocchie stanno conducendo in questi giorni”. “Nelle parrocchie, continua il testo, il prof. Agostino Sanfratello tiene conferenze-dibattito contro la legalizzazione dell’aborto. Vogliamo ricordare che Agostino Sanfratello è un noto nazista di Ordine Nuovo come risulta dal Corriere della Sera dell’agosto-settembre 1975. Le suddette conferenze il Sanfratello le tiene all’insegna del terrorismo, in sale parrocchiali piene zeppe di noti picchiatori fascisti, fra gli altri Cipoletta e i fratelli Primo e LucaCarbone”. “Al di là delle falsificazioni scientifiche e della informazione mistificata offerta da diapositive aberranti, capziosamente commentate, intendiamo in questo momento denunciare il clima di intimidazione in cui si svolgono queste conferenze e lo scandaloso e intollerabile connubio tra chiesa e nazifascisti”. E il testo si chiude: “ Invitiamo gli organi di stampa a pubblicare questa lettera e le forze democratiche a prendere posizione su questa inaccettabile situazione”. Firmato: I collettivi femministi salernitani. A parte il linguaggio dell’epoca ma non particolarmente violento, il manifesto contiene alcune palesi ingenuità, il riferimento generico ad un articolo non meglio precisato del Corriere della sera dell’”agosto-settembre del 1975” e la definizione di “noto nazista di Ordine Nuovo”; inoltre come docente di Pedagogia al Magistero, per Sanfratello le accuse di “falsificazioni scientifiche” potevano essere considerate lesive per la reputazione accademica. Con la stampigliatura delle Arti Grafiche Boccia, fu poi facilerisalire ai nomi delle femministe che materialmente si erano recate in tipografia e a presentare querela nei loro confronti e verso lo stesso Orazio Boccia. Alla notizia della querela, in molte corsero a denunciarsi e si giunse così alla citazione notificata il 25/11/1977 verso quarantacinque donne per  “il reato di cui agli artt. 110-112-595 del codice penale e ai sensi della Legge 8/2/1948 per avere, in concorso, mediante affissione di un manifesto murale nelle vie cittadine di Salerno e Cava dei Tirreni nel marzo 1977 offeso la reputazione di Agostino Sanfratello, il quale veniva tacciato di nazismo ed indicato quale aderente ad Ordine Nuovo, attribuendogli inoltre, il fatto determinato di tenere conferenze contro la legalizzazione dell’aborto all’insegna del terrorismo e delle falsificazioni scientifiche ed informazioni mistificate”. Prima udienza presso la II sezione del Tribunale fissata per il 19 dicembre del 1977 che fu subito spostata a febbraio 1978. Oltre alle 45 giunsero autodenunce da Brescia e da altre città per altre 125 donne. Il gruppo difensore dei collettivi era composto dalle avvocatesse Maria Magnani Noia di Torino, Tina Lagostena Bassi,  da Roma, Giulia Zampolo di Milano, Grazia Volo di Palermo e Alfonsina Landi di Salerno. Per il tipografo Boccia gli avvocati erano Diego Cacciatore, Giambattista Ferrazzano e Licia Cicchiello, per Sanfratello l’avvocato Camillo De felice. L’udienza di febbraio vide una gigantesca mobilitazione oltre che dei collettivi femministi, dei partiti politici della sinistra, dei consigli di fabbrica, dei sindacati, con l’arrivo di una folla a stento contenuta dentro e fuori il Tribunale, tra slogan, bandiere e servizi d’ordine. Tanto che l’udienza fu spostata nella più capiente aula della  Corte d’ appello. Collegio giudicante, Presidente Nicola Boccassini, giudici a latere Malzone, e Spatuzzi, PM Niceforo. Subito il processo si trasformò da procedurale a politico, con letture in aula di proclami e memoriali sui temi della battaglia per la legalizzazione dell’aborto. Nel corso delle udienze vennero presentate registrazioni delle conferenze dove le donne venivano definite assassine, depliant dal titolo “Aborto  è omicidio”, distribuiti nelle parrocchie e filmati prodotti dalla San Paolo con accuse rivolte alle femministe. Vennero disposti anche accertamenti su precedenti penali pendenti  a carico dei fratelli Carbone e di Fiore Cipolletta che accompagnavano Sanfratello nella sua attività di propaganda. Fondamentale fu la testimonianza di una delle autodenunciate, Nadia Caragliano, che si era recata alla chiesa dei Salesiani nel corso di una delle conferenze ed era stata apostrofata come assassina. Nel documento principale, letto in aula e poi pubblicato su vari quotidiani, dal titolo “Siamo tutte imputate”, si leggeva: “Ci assumiamo la piena responsabilità del manifesto. Siamo noi donne a sentirci diffamate da campagne antiabortiste che con toni da inquisizione ci additano come assassine e mostri. Non siamo le Baccanti dell’aborto”. La difesa aveva dimostrato le grossolane falsificazioni di cifre e dati,  accompagnate da foto raccapriccianti con feti morti o usati per l’industria cosmetica; ampiamente dimostrata l’appartenenza ideologica del professore, fondatore di Alleanza Cattolica, membro della famiglia resasi protagonista del famoso Caso Braibanti, all’area dell’integralismo cattolico di estrema destra. Via via che si susseguivano le udienze, scemavano la mobilitazione e il carattere politico del processo che erano stati supportati dai consigli di fabbrica e dalla sinistra, vennero portate testimonianze di studentesse che avevano partecipato alle conferenze ai Salesiani e che confermarono le diapositive macabre, la definizione di  assassine delle donne che abortivano per ragioni futili, come mantenere la linea e indossare vestiti alla moda. Il Tribunale non fu del tutto super partes, una suora fu accompagnata dai carabinieri per testimoniare a favore del Sanfratello, passò un’ordinanza nella quale si autorizzò l’ascolto di una registrazione dove le voci concitate con gli epiteti di assassina rimanevano sullo sfondo con accuse di manipolazione da parte del collegio difensore. Si arriva così all’ultima udienza del 25 maggio,  quando dopo quattro ore in camera di consiglio, i giudici condannano le femministe a 100mila lire di multa e, colmo della beffa,  alle spese processuali per danni morali. “In un’aula piombata improvvisamente nel silenzio- scrive L’Unità del 26 maggio 1978-  la sentenza coglie con lo stesso effetto di una frustata la coscienza democratica di tutti i presenti, “una sentenza che non torna certo ad onore del tribunale di Salerno”,  e l’articolo reca il titolo: “Reato chiamare reazionario un reazionario”, e aggiungeva: “i veri danni morali andavano riconosciuti alle donne di Salerno che si erano impegnate contro una campagna oscurantista contro una legge che oggi a tutti gli effetti è una legge dello Stato italiano”. Per un atroce scherzo del destino, solo tre giorni prima della sentenza, era stata approvata la “Legge 22 maggio 1978, n.194 – Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. Anni dopo Agostino Sanfratello chiese e ottenne una transazione nella quale le imputate del processo (40 su 45) firmarono il ritiro di alcune affermazioni, come le falsificazioni scientifiche  e dichiaravano che “con l’affermazione nazista di ordine nuovo  avevano espresso, nel clima di accesa battaglia che aveva accompagnato la legge 194, una valutazione politica”. E infatti fu proprio per una “valutazione politica” che vennero condannate.

Luciana Libero

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